giovedì 19 febbraio 2009

"Wolfen, la Belva immortale" di Michael Wadleigh

"Wolfen" (idem). Con Albert Finney, Diana Venora, Gregory Hines, Edward James Olmos, Tom Noonan. Horror, durata 114 min. - USA 1981.

Questo film merita giustizia. Nel web in Italia, al di là della sinossi, non si trova granché e, anche tra i fanatici dell'horror, questa pellicola è stata sovente trascurata. Misteri.

Era il 1981 quando Michael Wadleigh, classe 1939, ai più noto come documentarista (nel 1970 gira "Woodstock", sui "3 days of peace and music" dando all'evento risonanza e testimonianza mondiale), decide di affrontare l'unico lungometraggio di fiction di tutta la sua carriera. Quali siano state le sue motivazioni non lo sapremo mai (forse perchè il film è più hippy di quel che si creda?), ma comunque dobbiamo essergli grati per averlo fatto. La storia: in un parco, nella profonda oscurità della notte, un finanziere di Manhattan viene ucciso orribilmente, ma le ragioni e, soprattutto, l'autore del delitto restano avvolti nel più fitto mistero. Solo un poliziotto intuisce che forse non è opera di esseri umani.

Già.

E quindi possiamo legare questo film al post precedente de “L'Albero del male” di Friedkin in qualche modo. Ma questo non è un film metafisico: Wolfen usa il fantastico come mezzo di denuncia. La tematica è quella della denuncia ambientale e dell'abuso dell'imperversare delle costruzioni edilizie, e, soprattutto – ancora, come nel film di Friedkin – della mancanza di equilibrio. Infatti i lupi (non mannari) del film sono connessi con le visioni (e anche qualcosa di più) degli indiani (c'è una bellissima “radiosa” scena in cui l'ispettore Albert Finney si reca sulle cime del ponte di Brookling per interrogare un operaio indiano che potrebbe sapere qualcosa). E non è un caso. Infatti in qualche modo, senza che nessuno lo sappia, i lupi, come gli indiani alcolizzati ed i barboni, hanno accettato il loro spazio, costretti in un luogo confinato e abbandonato nella periferia della big city. Spazio che però i capitalisti delle grandi aziende edilizie vogliono distruggere per ricostruire un nuovo lussuoso progetto abitativo. Certamente non è un caso il parallelismo tra indiani e lupi contrapposti all'uomo occidentale, che invece ha dimenticato qualsiasi connessione con la Terra in cui vive e con le parti meno razionali del suo essere.

Il film di Wadleigh però non usa i classici espedienti del genere. No. Wadleigh confida in un tempo narrativo dilatato, spazioso e arioso (a dispetto dei vicoli della grande città: infatti l'incontro “simbolo” con l'indiano è fatto sopra il ponte, ai confini col cielo), quasi contemplativo. Usa il giorno come la notte per la traversia investigativa del protagonista che ricorda molto gli ispettori dell'era noir. Le soggettive dei lupi, al tempo, erano abbastanza all'avanguardia, ma a colpire è la fotografia del prestigioso operatore Gerry Fischer, le lunghe ombre nei pomeriggi assolati e le notti peste. Il finale è una presa di consapevolezza simbolica, il tentativo di invitare a rispettare un equilibrio, anche con “esseri” o razze che, a parere dell'uomo occidentale, non dovrebbero avere ruolo nella nostra organizzazione della società e del territorio.

Nessun commento: