lunedì 16 febbraio 2009

John Fawcett, dal Canada con onore.


Nel 2000 esce (un po' in sordina in Europa) in tutto il mondo un nuovo film sulla licantropia e gli uomini lupo. Il titolo originale era "Ginger Snaps". E' il secondo lungometraggio di un regista canadese che viene dalla TV, classe 1968 e, probabilmente il primo "suo" (il suo esordio, "The boys club"- con il compianto Chris Penn -, era un lavoro su commissione destinato all'home video). "Suo" in quanto ideato e fortemente voluto. "Ginger Snaps" racconta di Ginger e Brigitte, due sorelle di 16 e 15 anni. Vivono emarginate dai compagni di scuola. Una notte Ginger, alla comparsa delle prime mestruazioni, viene aggredita da un lupo mannaro. L’evento dà il via a una lenta e inesorabile trasformazione non solo del corpo, che si fa sempre più “animale”, ma anche della mente di Ginger, sempre più disinvolto e disinibito che di giorno va a caccia di maschi e di notte va in giro ad uccidere i cani per procurarsi il cibo. L'unica che può fermare la cosa è Brigitte.
"Ginger Snaps" diventa il primo di una serie, ma in Italia viene (ri)distribuito col titolo Licantropia Evolution, dopo il successo commerciale del secondo capitolo. Una saga (fatta di tre episodi) che in Italia è arrivata nelle sale (o in videoteca) in modo scoordinato. Tuttavia i fan della serie sostengono sia il migliore. Ed in effetti il film ha vari spunti d'interesse che lo slegano dal rischio di essere un classico e dozzinale teen movie. Fawcett descrive, all'interno di una cittadina spenta in cui anche i rapporti tra gli adolescenti lo sono, due sorelle emarginate atipiche. Come dice Mauro Fradegradi con acume: (...)"è interessante il morboso rapporto tra le due sorelle, che in più occasioni rasenta l'omosessualità, se non ancora più audacemente, l'anelito a godere di se stessi rappresentati nell'altro, di cui però si brama la morte. Il film forse ci propone il suicidio, che van tanto cercando le due protagoniste, come un vero e proprio atto sessuale con se stessi. E se Brigitte (la più piccola), si riflette in Ginger (la più grande), e viceversa, allora è come dire che il desiderio sessuale è rivolto ad una proiezione di loro stesse". E questo non è poco per un film horror, che, bisogna dire, il regista sa come strutturare e raccontare. Prendiamo la scena iniziale: poche inquadrature, molto centrate, in un contesto anonimo. L'aumento della tensione è palpabile fino all'esplosione con il cane dilaniato. Il regista, che usa in chiave molto espressiva la macchina da presa, contrappunta la storia con i personaggi adulti, un po' come nel bellissimo "Riflessi di paura" dello scrittore e regista Philip Ridley, aumentando però la chiave ironica, così da emarginare ancor di più i giovani che tentano di crescere, come dice ancora Fradegradi: "(...)con tutte le pulsioni sessuali e autodistruttive di tanta maladolescenza, dalla quale tutti siam passati, e per la quale, credo ancora tutti, lamentiamo la separazione."
Il successo (in patria) del film permette a Fawcett di dedicarsi ad un progetto più complesso( e anche più distribuito) ingaggiando nel cast attori di un certo calibro come Maria Bello (fortemente voluta dal regista) e Sean Bean: il film si intitola "The Dark" ed esce nelle sale italiane nel 2006 in contemporanea con "Silent Hill" di Christopher Gans.
"The Dark": Da New York Adelle si trasferisce nel Galles, in una vecchia fattoria in cima ad una scogliera, insieme alla figlia Sarah e il marito James. Dopo qualche giorno Sarah viene portata via dalle onde e, mentre James cerca di ritrovare il corpo della figlia, Adelle è ossessionata dalla misteriose apparizioni di Sarah ed è convinta che la bambina sia intrappolata da qualche parte all'interno della casa. Adelle ha sentito parlare di un'antica leggenda locale su un luogo chiamato The Dark, un'immagine rovesciata e distorta del mondo reale. Forse sua figlia è intrappolata in un'altro mondo. Partendo dal mito celtico di Annwyn - un mondo parallelo e distorto, dominato dall'oscurità in cui confuso è il confine tra vita e morte ma dal quale forse è possibile risorgere, assecondando un gioco di rituali e sanguinosi inganni celebrati dal suo ministro di culto (uno dei vivi per uno dei morti) -, Fawcett in verità racconta una tragedia dolente. Quel dolore che già al secondo film diventa sua cifra portante. Infatti in fondo il film è una grande riflessione sul dolore della protagonista, che passa - in noi come esperienza - attraverso un mondo (e un passato) parallelo: ma è quello di una donna smarrita che non ha più tempo forse per ritrovarsi. Qui la messa in posa di Fawcett è più rigorosa del film precedente, più lenta, con grandissima attenzione al paesaggio desolato e ad una fotografia desaturata nei colori della terra.
Ma il capolavoro di John Fawcett arriva nel 2006. "Last Exit".Protagoniste due donne, con due storie e due famiglie diverse, ognuna con i suoi problemi, entrambe con un lavoro e soprattutto con la fretta di arrivarci, al lavoro, lottando contro il traffico, e cercare di essere efficienti in un mondo sovracarico. E per tutta la giornata si incrociano, ognuna nella sua macchina, fino ad arrivare al ad un punto di non ritorno. Per tutto il film vediamo la giornata delle due donne protagoniste dell'incidente, per capire bene come si e' arrivati fino a quel punto.
Lo dico subito, questo film per me è un capolavoro, e non capisco come possa essere stato così trascurato (è uscito solo in home video) dalla distribuzione e dalla critica.
Il film parte da un dato statistico sul numero di lamiere (auto) che sfrecciano ogni giorno sulle strade di una grande città. Talmente alto il numero che, sottolinea la didascali aainiziale, qualcosa deve succedere. E noi assistiamo a quest'evento.
La vita di due sconosciute sottoposte dal sistema occidentale di produzione all'efficienza - che è anche puntualità - lavorativa (e quindi della propria di vita) si intreccia perchè il sistema stesso è complesso e compresso nei suoi vasi comunicanti e straripanti. Sistema incosapevolmente accettato che può portare a degenerazioni incosapevoli e impulsi di rancore: l'uomo chiuso in quelle lamiere nel traffico (non solo quello delle strade, sottolinea Fawcett) che scheggia impazzito tra le strade della città per raggiungere i suoi (illusori) traguardi diventa in "Last Exit" rabbiosa tragedia della pazzia dell'uomo portato ad assecondare ritmi e mete che sono sempre al limite. E in questo quadro desolante la regia di Fawcett è incredibile: mossa, dinamica, "scheggiante" e incredibilmente puntuale e vera nel tratteggio delle due stremate protagoniste (Andrea Roth e Kathleen Robertson: da urlo). Bastano guardare alcune sequenze per trovare lezioni di cinema sparse in tutto il film. Peccato che nessuno abbia sentito il dovere di accorgesene.
Onore quindi a questo regista. Onore davvero.


Nessun commento: