giovedì 19 febbraio 2009

"Il grande odio" di Gregory Nava.

"Il grande odio" (a time of destiny). Con William Hurt, Timothy Hutton, Melissa Leo, Francisco Rabal, Stockard Channing. Drammatico, durata 117 min. - USA 1988.

Lo dico subito: questo film non ha convinto molti. E' stato ritenuto un melodramma incolore (su tempimoderni.com scrivono persino, bontà loro, “orribile”) e fuori tempo massimo. Avvertiti quindi.

Tuttavia io non mi riconosco in questi giudizi sommari, e, incuriosito dalle traversie distributive di questo film, ho voluto recuperarlo. Siamo a San Diego nel 1943. Il film parla di un amore tra una giovane donna, figlia di immigrati baschi vecchia maniera, e un povero soldato, in partenza per la guerra in Italia, di nome Jack. L'amore è però contrastato dal padre di lei che tenta di bloccare il matrimonio che i due giovani stanno compiendo di nascosto. In un incidente il vecchio perde la vita e il figlio “rinnegato” della famiglia immigrata, Martin, si convince a vendicarne la morte spacciandosi come amico al fronte di Jack.

Già dalla trama si evince che siamo di fronte al (melo) drammone e, in effetti, è quello che in qualche modo ci troviamo sotto gli occhi. In qualche modo però.

Perché il regista Gregory Nava ha un approccio strano alla materia. Se da un lato abbiamo una direzione degli attori da telenovela di lusso, dall'altro le scelte registiche del filmaker californiano raggelano il tutto. Ne risulta un film strano e non risolto forse, molto ossessivo e grave, che gioca le sue carte migliori nel tratteggio del personaggio di Martin (interpretato con inusualità da William Hurt) e nella scelta delle composizioni di quadro glaciali nei momenti decisivi . Nava (sceneggiatore con la compagna Anna Thomas) da un lato utilizza il bel tema melodico e melenso di Morricone perennemente - mentre la fotografia di James Glennon impasta il film dei colori del melodramma con una certa funeiricità - dall'altro lato non accontenta il pubblico con la catarsi ma preferisce un finale di gioco di sguardi che sembra ribaltare il possibile lieto futuro dei due amanti protagonisti (interpretati da Timothy Hutton e Melissa Leo, quest'ultima candidata agli Oscar 2009 come miglior attrice)

Difficile leggere questo film, che sembra respingere sia il suo pubblico (quello dei melodrammi) che il suo “non pubblico” (quello dei film d'autore, per capirci), e che forse, perché troppo poco spinto, incorre nel rischio della sterilità; eppure, ripeto, questo strano ibrido offre spunti cinematografici interessanti e inusuali di cui, a mio avviso, pochi si sono accorti.


"Hotel New Hampshire" di Tony Richardson.

"Hotel New Hampshire" (idem). Con Rob Lowe, Jodie Foster, Beau Bridges, Nastassja Kinski, Matthew Modine, Wallace Shawn. Commedia, durata 103 min. - USA 1984.

Il Free Cinema era una corrente cinematografica anni '50 che remava contro il cinema imperante in Inghilterra in quegli anni. Era un cinema di low budget, libero e senza vincoli commerciali, come si legge nella enciclopedia Encarta: riprese negli esterni reali e spesso degradati delle città industriali; soggetti incentrati sulla vita di una gioventù proletaria frustrata e nevrotica, ma comunque vitale, e che si esprime in cockney (il dialetto londinese); dissacrazione degli ideali tradizionali, decaduti con la fine dell’impero britannico; ritmo frenetico e urlato; Tra gli esponenti di punta di questo cinema il più birichino era certamente Tony Richardson, autore di film importanti come i “Giovani arrabbiati” nel periodo inglese o “Tom Jones” in quello americano.

La carriera di Richardson è stata definita oscillatoria e soprattutto nell'ultimo periodo tramontante. Tuttavia il suo penultimo film (il cui insuccesso al botteghino avrebbe impedito al regista di tornare al cinema fino al 1991), tratto da un romanzo di John Irving, è un film peculiare e incredibile, a cui, ancora oggi, pochi sembrano aver fatto gli onori.

Ci provo io. Jodie Foster, Rob Lowe, Beau Bridges, Wallace Shawn e Nastassja Kinski sono i protagonisti di questa commedia trasgressiva e tragica allo stesso tempo. Il film racconta le vicende della bizzarra famiglia Berry, il patriarca Win decide gestire un albergo coinvolgendo tutti i membri della famiglia. Dopo alcune difficoltà iniziali, la loro impresa avrà successo. All'interno dell'hotel di svolgono le intricate vicende familiari, tra litigi, amori e ripicche. John e Frannie, fratello e sorella, vivono un rapporto incestuoso, essendo innamorati l'uno dell'altra, Frank deve fare i conti con le sue pulsioni omosessuali, in più ad animare le vicende, vi sono il bizzarro nonno ed un cane di nome Tristezza, che soffre di flautolenze. Tra drammi e tragicomiche avventure, la famiglia riuscirà ad aprire un nuovo albergo a Vienna. Finchè comparirà finalmente "l'orso" di papà Win...

Certo, un film come questo allontana il grande pubblico. Troppo oscillante tra demenzialità, tragicommedia e film libertino. Se in più arriva il divieto ai minori di 18 anni per via della tematica (occhio, della tematica, non delle scene) incestuosa, l'insuccesso è quasi assicurato. Tanto è vero che in Italia è arrivato solo in VHS sei anni dopo. Ma “Hotel New Hampshire” è il luogo “in cui ognuno può essere se stesso”. Ed ecco quindi irriverente questo microcosmo di famiglia tipo degli anni '70: malessere, desideri, pulsioni, frustrazioni e ideologia miscelati in una messa in immagini ritmata e acuta, senza remore, in cui, comunque la malinconia per la condizione umana fa sempre capolino in qualche forma. Lo sberleffo e i riferimenti al cinema muto sono continui, ma Richardson (come Irving) non è stanco di ripetere di “continuare a passare per le finestre aperte”. E durante la visione lo spettatore paziente capirà che anche lui, più di qualche volta, ha trovato quelle finestre aperte.


"Wolfen, la Belva immortale" di Michael Wadleigh

"Wolfen" (idem). Con Albert Finney, Diana Venora, Gregory Hines, Edward James Olmos, Tom Noonan. Horror, durata 114 min. - USA 1981.

Questo film merita giustizia. Nel web in Italia, al di là della sinossi, non si trova granché e, anche tra i fanatici dell'horror, questa pellicola è stata sovente trascurata. Misteri.

Era il 1981 quando Michael Wadleigh, classe 1939, ai più noto come documentarista (nel 1970 gira "Woodstock", sui "3 days of peace and music" dando all'evento risonanza e testimonianza mondiale), decide di affrontare l'unico lungometraggio di fiction di tutta la sua carriera. Quali siano state le sue motivazioni non lo sapremo mai (forse perchè il film è più hippy di quel che si creda?), ma comunque dobbiamo essergli grati per averlo fatto. La storia: in un parco, nella profonda oscurità della notte, un finanziere di Manhattan viene ucciso orribilmente, ma le ragioni e, soprattutto, l'autore del delitto restano avvolti nel più fitto mistero. Solo un poliziotto intuisce che forse non è opera di esseri umani.

Già.

E quindi possiamo legare questo film al post precedente de “L'Albero del male” di Friedkin in qualche modo. Ma questo non è un film metafisico: Wolfen usa il fantastico come mezzo di denuncia. La tematica è quella della denuncia ambientale e dell'abuso dell'imperversare delle costruzioni edilizie, e, soprattutto – ancora, come nel film di Friedkin – della mancanza di equilibrio. Infatti i lupi (non mannari) del film sono connessi con le visioni (e anche qualcosa di più) degli indiani (c'è una bellissima “radiosa” scena in cui l'ispettore Albert Finney si reca sulle cime del ponte di Brookling per interrogare un operaio indiano che potrebbe sapere qualcosa). E non è un caso. Infatti in qualche modo, senza che nessuno lo sappia, i lupi, come gli indiani alcolizzati ed i barboni, hanno accettato il loro spazio, costretti in un luogo confinato e abbandonato nella periferia della big city. Spazio che però i capitalisti delle grandi aziende edilizie vogliono distruggere per ricostruire un nuovo lussuoso progetto abitativo. Certamente non è un caso il parallelismo tra indiani e lupi contrapposti all'uomo occidentale, che invece ha dimenticato qualsiasi connessione con la Terra in cui vive e con le parti meno razionali del suo essere.

Il film di Wadleigh però non usa i classici espedienti del genere. No. Wadleigh confida in un tempo narrativo dilatato, spazioso e arioso (a dispetto dei vicoli della grande città: infatti l'incontro “simbolo” con l'indiano è fatto sopra il ponte, ai confini col cielo), quasi contemplativo. Usa il giorno come la notte per la traversia investigativa del protagonista che ricorda molto gli ispettori dell'era noir. Le soggettive dei lupi, al tempo, erano abbastanza all'avanguardia, ma a colpire è la fotografia del prestigioso operatore Gerry Fischer, le lunghe ombre nei pomeriggi assolati e le notti peste. Il finale è una presa di consapevolezza simbolica, il tentativo di invitare a rispettare un equilibrio, anche con “esseri” o razze che, a parere dell'uomo occidentale, non dovrebbero avere ruolo nella nostra organizzazione della società e del territorio.

"L'Albero del Male" di William Friedkin

"L'Albero del Male" (The Guardian). Con Jenny Seagrove, Dwier Brown, Carey Lowell, Xander Berkeley. Horror, durata 85 min. - USA 1990.

Chi mi conosce sa che amo in particolare il genere horror. E ancor più in particolare quell'horror che si fa veicolo di riflessioni – denunce - approfondimenti che, attraverso le evocazioni più profonde e talvolta inconsce, oltrepassa il genere stesso.

L'horror americano degli anni '70 è stato la nouvelle vague indipendente: firme come Romero, Craven, Hooper, Cohen e Carpenter ne erano i testimoni più esemplari. L'ufficializzazione dell'horror come genere di serie A (per serie A intendesi prodotto all'interno delle logiche delle major) l'hanno “timbrata” due registi noti che raramente hanno frequentato il genere: Roman Polanski (con "Rosemary Baby") e William Friedkin (con il grande successo de "L'Esorcista"). E su un'opera considerata minore di quest'ultimo vorrei soffermarmi: "L'Albero del Male".

Passati i fasti degli anni '70 dell'horror indipendente e politico, e passato anche il periodo ambiguo dell'horror anni '80 (che vede tra i suoi film simbolo "La Casa" di Sam Raimi), Friedkin, regista di film controversi e imperdibili come "Cruising" (con Al Pacino) e "Il Braccio violento della legge" (ma anche "Assassino senza colpa?" con Michael Biehn) torna al genere horror con questo film tratto da un libro di Dan Greenburg (nel film anche sceneggiatore con Friedkin). Vi si narra di una famigliola borghese che compra una casa postmoderna alla periferia di una grande città vicino ad un grande e incontaminato bosco. Coppia giovane, lei rimane incinta e partorisce. Nascerà un bimbo che necessiterà di cure e attenzioni costanti, ma la babysitter che la coppia trova ha un passato misterioso e malefico. Infatti è la “guardiana” di un albero demoniaco che richiede sacrifici di bambini. E la “guardiana”, che si inserisce con innocenza e morbosità nella famiglia, deve solo aspettare che il piccolo compia un mese d'età.

All'inizio degli anni '90 il cinema americano aveva una sua paranoia: l'intruso che si inserisce nella famiglia bene e scombina il quadro familiare. Pellicole come “La mano sulla culla” di Curtis Hanson, “Giochi d'Adulti” di Alan J. Pakula, “Abuso di potere” di Jonathan Kaplan e “Oltre il ricatto” di Geoff Murphy. In questo caso, però, Friedkin individua l'intruso non più come una persona in carne e ossa, un killer o un psicopatico. L'intruso è altro, è la Natura e le contraddizioni della natura umana assieme. Il film, quindi, diventa un'esperienza quasi metafisica.

Provo ad addentrarmi un po'.

Friedkin, si sa, è un regista complesso. La storia ad una prima vista sembra lineare e quasi banale sulla carta, ma ciò che conta in Friedkin è la messa in scena ed i risvolti di quest'ultima. Il film oscilla costantemente tra la favola nera e l'horror ed i suoi detrattori rimproverano al regista americano una incompiutezza di fondo. Forse. Eppure, è questo carattere ellittico del film a dare più spunti evocativi al tutto, ed è lungi da essere un film “anti ecologista” come è stato detto.

Il primo punto di forza del film sono le location e le scenografie: i protagonisti comprano una casa high-tech immersa nel verde di un bosco che arriva fino alle porte di casa. Questa casa, tutta vetri e geometrica, è il primo segno di un conflitto: quello tra volontà dell'uomo di restare a contatto con l'ambiente, la Natura, ma allo stesso tempo quella di immergersi dentro ad essa nel controllo, nei confini e nei limiti, dimostrando la sua (in)consapevolezza di superiorità (ridicola agli occhi ingenui di un bimbo, che vede la “realtà” con altri occhi -le soggettive dei neonati sono tutte in grandangolo spinto-). La Natura si sa, è anche mistero, sregolatezza, quelle “cose” che l'uomo tende ad ignorare per non perdere se stesso: preferisce affacciarsi attraverso un vetro protettivo ed assistere indifferente. Ma quando questa Natura entra in casa, nelle nostre stanze, diventa minaccia. Ed è allora che il conflitto si apre, perché la Natura non è quella dei bei romanzi d'amore, ma è anche insidia.

Certo, Friedkin (bisogna anche dire che non si è mai capito se ha riconosciuto davvero la paternità di quest'opera) sembra più abbozzare le cose che veramente approfondirle: da un lato deve accontentare il grande pubblico (e la parte, molto lunga, dell'inseguimento dei coyote nei confronti del vicino di casa dei protagonisti è magistrale), e quindi restare dentro certe regole. Eppure questo “sconfino” continuo tra favola nera, horror adulto e cinema commerciale ha un suo fascino: raramente si è visto un bosco, una natura, così (artificiosamente) illuminata da diventare incubo. E raramente si è visto un intruso così seducente, minaccioso e inafferrabile quasi allo stesso tempo (merito anche della bravura dell'attrice malaysiana Jenny Seagrove). Uno dei pochi horror d'adulti e politici che sono comparsi nel ventennio degli anni '80 e '90. Ora è finito nel dimenticatoio, purtroppo al momento neppure recuperabile in DVD in Italia.


lunedì 16 febbraio 2009

John Fawcett, dal Canada con onore.


Nel 2000 esce (un po' in sordina in Europa) in tutto il mondo un nuovo film sulla licantropia e gli uomini lupo. Il titolo originale era "Ginger Snaps". E' il secondo lungometraggio di un regista canadese che viene dalla TV, classe 1968 e, probabilmente il primo "suo" (il suo esordio, "The boys club"- con il compianto Chris Penn -, era un lavoro su commissione destinato all'home video). "Suo" in quanto ideato e fortemente voluto. "Ginger Snaps" racconta di Ginger e Brigitte, due sorelle di 16 e 15 anni. Vivono emarginate dai compagni di scuola. Una notte Ginger, alla comparsa delle prime mestruazioni, viene aggredita da un lupo mannaro. L’evento dà il via a una lenta e inesorabile trasformazione non solo del corpo, che si fa sempre più “animale”, ma anche della mente di Ginger, sempre più disinvolto e disinibito che di giorno va a caccia di maschi e di notte va in giro ad uccidere i cani per procurarsi il cibo. L'unica che può fermare la cosa è Brigitte.
"Ginger Snaps" diventa il primo di una serie, ma in Italia viene (ri)distribuito col titolo Licantropia Evolution, dopo il successo commerciale del secondo capitolo. Una saga (fatta di tre episodi) che in Italia è arrivata nelle sale (o in videoteca) in modo scoordinato. Tuttavia i fan della serie sostengono sia il migliore. Ed in effetti il film ha vari spunti d'interesse che lo slegano dal rischio di essere un classico e dozzinale teen movie. Fawcett descrive, all'interno di una cittadina spenta in cui anche i rapporti tra gli adolescenti lo sono, due sorelle emarginate atipiche. Come dice Mauro Fradegradi con acume: (...)"è interessante il morboso rapporto tra le due sorelle, che in più occasioni rasenta l'omosessualità, se non ancora più audacemente, l'anelito a godere di se stessi rappresentati nell'altro, di cui però si brama la morte. Il film forse ci propone il suicidio, che van tanto cercando le due protagoniste, come un vero e proprio atto sessuale con se stessi. E se Brigitte (la più piccola), si riflette in Ginger (la più grande), e viceversa, allora è come dire che il desiderio sessuale è rivolto ad una proiezione di loro stesse". E questo non è poco per un film horror, che, bisogna dire, il regista sa come strutturare e raccontare. Prendiamo la scena iniziale: poche inquadrature, molto centrate, in un contesto anonimo. L'aumento della tensione è palpabile fino all'esplosione con il cane dilaniato. Il regista, che usa in chiave molto espressiva la macchina da presa, contrappunta la storia con i personaggi adulti, un po' come nel bellissimo "Riflessi di paura" dello scrittore e regista Philip Ridley, aumentando però la chiave ironica, così da emarginare ancor di più i giovani che tentano di crescere, come dice ancora Fradegradi: "(...)con tutte le pulsioni sessuali e autodistruttive di tanta maladolescenza, dalla quale tutti siam passati, e per la quale, credo ancora tutti, lamentiamo la separazione."
Il successo (in patria) del film permette a Fawcett di dedicarsi ad un progetto più complesso( e anche più distribuito) ingaggiando nel cast attori di un certo calibro come Maria Bello (fortemente voluta dal regista) e Sean Bean: il film si intitola "The Dark" ed esce nelle sale italiane nel 2006 in contemporanea con "Silent Hill" di Christopher Gans.
"The Dark": Da New York Adelle si trasferisce nel Galles, in una vecchia fattoria in cima ad una scogliera, insieme alla figlia Sarah e il marito James. Dopo qualche giorno Sarah viene portata via dalle onde e, mentre James cerca di ritrovare il corpo della figlia, Adelle è ossessionata dalla misteriose apparizioni di Sarah ed è convinta che la bambina sia intrappolata da qualche parte all'interno della casa. Adelle ha sentito parlare di un'antica leggenda locale su un luogo chiamato The Dark, un'immagine rovesciata e distorta del mondo reale. Forse sua figlia è intrappolata in un'altro mondo. Partendo dal mito celtico di Annwyn - un mondo parallelo e distorto, dominato dall'oscurità in cui confuso è il confine tra vita e morte ma dal quale forse è possibile risorgere, assecondando un gioco di rituali e sanguinosi inganni celebrati dal suo ministro di culto (uno dei vivi per uno dei morti) -, Fawcett in verità racconta una tragedia dolente. Quel dolore che già al secondo film diventa sua cifra portante. Infatti in fondo il film è una grande riflessione sul dolore della protagonista, che passa - in noi come esperienza - attraverso un mondo (e un passato) parallelo: ma è quello di una donna smarrita che non ha più tempo forse per ritrovarsi. Qui la messa in posa di Fawcett è più rigorosa del film precedente, più lenta, con grandissima attenzione al paesaggio desolato e ad una fotografia desaturata nei colori della terra.
Ma il capolavoro di John Fawcett arriva nel 2006. "Last Exit".Protagoniste due donne, con due storie e due famiglie diverse, ognuna con i suoi problemi, entrambe con un lavoro e soprattutto con la fretta di arrivarci, al lavoro, lottando contro il traffico, e cercare di essere efficienti in un mondo sovracarico. E per tutta la giornata si incrociano, ognuna nella sua macchina, fino ad arrivare al ad un punto di non ritorno. Per tutto il film vediamo la giornata delle due donne protagoniste dell'incidente, per capire bene come si e' arrivati fino a quel punto.
Lo dico subito, questo film per me è un capolavoro, e non capisco come possa essere stato così trascurato (è uscito solo in home video) dalla distribuzione e dalla critica.
Il film parte da un dato statistico sul numero di lamiere (auto) che sfrecciano ogni giorno sulle strade di una grande città. Talmente alto il numero che, sottolinea la didascali aainiziale, qualcosa deve succedere. E noi assistiamo a quest'evento.
La vita di due sconosciute sottoposte dal sistema occidentale di produzione all'efficienza - che è anche puntualità - lavorativa (e quindi della propria di vita) si intreccia perchè il sistema stesso è complesso e compresso nei suoi vasi comunicanti e straripanti. Sistema incosapevolmente accettato che può portare a degenerazioni incosapevoli e impulsi di rancore: l'uomo chiuso in quelle lamiere nel traffico (non solo quello delle strade, sottolinea Fawcett) che scheggia impazzito tra le strade della città per raggiungere i suoi (illusori) traguardi diventa in "Last Exit" rabbiosa tragedia della pazzia dell'uomo portato ad assecondare ritmi e mete che sono sempre al limite. E in questo quadro desolante la regia di Fawcett è incredibile: mossa, dinamica, "scheggiante" e incredibilmente puntuale e vera nel tratteggio delle due stremate protagoniste (Andrea Roth e Kathleen Robertson: da urlo). Bastano guardare alcune sequenze per trovare lezioni di cinema sparse in tutto il film. Peccato che nessuno abbia sentito il dovere di accorgesene.
Onore quindi a questo regista. Onore davvero.


Perchè?


Perchè il Cinema è arte e cultura. Questo è indubbio. Ed è emozione. Tuttavia non solo ciò che è nuovo luccica. Al cinema mai. Anche le "cose" vecchie continuano ad abbagliare. Non solo le più grandi, ma anche le più piccole che magari il mondo della critica e della distribuzione, a mio avviso, hanno un po' trascurato. Per cui qui, oltre a parlare anche di film ed eventi attuali, cercheremo di recuperare titoli e registi meno noti e/o "contestati". Per rendere giustizia, nei limiti del possibile e delle sensibilità personali, a chi magari, di giustizia, ne meritava di più. Col tempo, lentamente e finché ne avremo le forze.